OSSERVATORIO TEORETICO
Pittura Morta (Tentazione-azione-Senso di colpa) 2005-2025
Nota introduttiva di Virgilio Rospigliosi
È lecito distruggere un’opera d’arte? E, soprattutto, quali dilemmi etici e morali emergono se è l’artista stesso a sollecitare un simile gesto distruttivo? La questione, solo apparentemente paradossale, affonda le proprie radici non tanto nell’ontologia dell’arte, quanto nel suo statuto sociale e comportamentale. Non si tratta, infatti, di interrogarsi sull’integrità materiale dell’oggetto artistico, quanto piuttosto sulla possibilità che l’arte, in quanto fenomeno relazionale e situato, possa trovare la propria autenticità nella messa in crisi dei suoi stessi presupposti. Già nel 2005 e nel 2019 furono proposte una video performance e un’installazione analoghe all’opera in questione. Dal carattere fortemente interattivo, benché, ed è questa la peculiarità, l’interazione venga al contempo proposta e negata. L’opera si compone di due elementi essenziali: un dipinto e un martello. 1) Il dipinto è realizzato con raffinata perizia pittorica, raffigura un cavallo bianco, privato della sua parte posteriore e dotato, in modo innaturale, di tre zampe anteriori. Legato al collo ha un filo di cotone (reale-non dipinto), la cui estremità è legata a un oggetto. 2) Il martello è posato a terra, a disposizione dello spettatore. Il dipinto, simbolo della bellezza apollinea – composta, ideale, spirituale – è collocato in alto, in una posizione non convenzionale e volutamente inaccessibile. Non può essere osservato senza compiere un gesto fisico: alzare lo sguardo o addirittura arrampicarsi. Il martello, al contrario, è a portata di mano. La distanza spaziale fra i due oggetti è specchio di una distanza concettuale: tra il razionale e l’irrazionale, tra l’equilibrio e l’impulso, tra la contemplazione estetica e la violenza iconoclasta. Tale configurazione può essere definita come espressione di un “senso di colpa a priori”. Una colpa latente, interiorizzata, che nasce non dall’azione compiuta, ma dalla sua sola possibilità. L’installazione diventa così uno strumento morale: non offre un’opera da ammirare, ma una scelta da compiere. Lo spettatore può impugnare il martello e colpire il dipinto – compiendo un gesto irreversibile che lo caricherà, forse, di un senso di colpa. Oppure può scegliere di non agire, limitandosi a immaginare la distruzione, e partecipando così passivamente, ma non meno intensamente, all’evento. In entrambi i casi, ciò che l’opera attiva è una forma di catarsi: un’esperienza liminale, in bilico tra azione e inazione, tra realtà e rappresentazione, che richiama alla mente la funzione purificatrice del teatro tragico nella concezione aristotelica. Tuttavia, è necessario precisare: l’opera d’arte non si identifica né con il martello né con il dipinto. Essa risiede nel gesto dello spettatore. È nell’atto, o nella rinuncia all’atto, che si manifesta la vera sostanza dell’opera. In questo senso, essa si configura come “arte comportamentale”, ovvero come provocazione esistenziale rivolta al soggetto osservante. L’intenzione non è proporre un oggetto estetico, ma una situazione-limite che chiede una risposta. E nel farlo, interroga le fondamenta stesse del nostro rapporto con l’arte, con la responsabilità individuale, con il potere e il rischio del libero arbitrio. La dialettica tra Apollineo e Dionisiaco, concetti mutuati dalla riflessione nietzscheana, viene riproposta in chiave esperienziale. Il dipinto, con la sua armonia mutilata, richiama la tensione ideale verso l’ordine e la bellezza. Ma è una bellezza incompleta, ferita, come a voler suggerire che ogni idealizzazione porta con sé una rinuncia, una perdita. Il martello, simbolo dell’impulso, è tentazione e insieme condanna. Il gesto distruttivo è semplice, ma non è mai ingenuo: è carico di conseguenze morali, è una scelta che chiama in causa l’individuo nella sua capacità di decidere, di assumersi il peso delle proprie azioni. E in questo, l’opera si fa profondamente politica, nel senso originario del termine: essa mette in scena il soggetto nel momento della sua responsabilizzazione pubblica. Non siamo dunque di fronte a un semplice oggetto estetico, ma a una macchina simbolica, che interroga non solo l’arte, ma la società in cui essa si inscrive. In una cultura della visibilità, dove il gesto eclatante diventa forma estrema di comunicazione, ecco un’inversione dei termini del problema: non è più l’artista a esibirsi, ma lo spettatore. La sua reazione, il suo agire o non agire, è l’opera stessa. Questo rovesciamento ha implicazioni profonde: ridimensiona il ruolo autoriale, disarticola il concetto tradizionale di fruizione artistica e apre lo spazio a una riflessione più ampia sul senso dell’esperienza estetica nel mondo contemporaneo. Distruggere un’opera d’arte non è, in questo contesto, un atto vandalico, ma un atto profondamente carico di significati. Esso rappresenta la messa in crisi dei nostri automatismi culturali, l’interruzione del flusso contemplativo che separa l’osservatore dall’oggetto. Non si chiede di ammirare un dipinto o un martello: si costringe a guardare dentro noi stessi. Trasformando l’arte in esperienza etica, in provocazione del pensiero, in esercizio radicale di libertà responsabile.
Analisi dell’installazione a cura di Stefano Mastandrea (Ricercatore e Professore ordinario settore scientifico disciplinare. Psicologia dell’arte e della percezione Università Roma Tre)
Nella sala della Galleria, dal mio punto di vista vedo, nell’ordine: un piedistallo nero su cui poggia saldo un martello a testa in giù; il quadro che raffigura un cavallo bianco con tre zampe, mancante della parte posteriore e della quarta zampa, mutilato. Il manico del martello, sovrapposto, potrebbe essere la quarta zampa assente. Il cavallo solleva la zampa anteriore destra in una andatura innaturale, elegante, antropomorfa. Emerge da uno sfondo scuro o dalla parete che potrebbe nascondere la porzione posteriore convessa del suo corpo. Percettivamente completiamo l’incompleto, integriamo la parte mancante con quella visibile. Le informazioni in arrivo dall’esterno (bottom-up) si vanno ad integrare con le informazioni già in nostro possesso, precedentemente acquisite attraverso l’esperienza (top-down), che contribuiscono a formare gli schemi che utilizziamo continuamente per semplificare il processo percettivo. Davanti al dipinto vogliamo essere rassicurati; non accettiamo che un cavallo così bello, con un’espressione malinconica non sia integro. Ci difendiamo dalle irregolarità, preferiamo la simmetria, l’armonia. Per terra, a destra e sinistra del cavallo ci sono delle pietre da cui nascono dei fiori: resilienza? Dal collo del cavallo parte un filo bianco a cui è attaccata una teiera che poggia sulla cornice superiore destra creando una continuità diagonale con la parte inferiore sinistra del dipinto. Il filo è reale, ma a prima vista potrebbe essere disegnato. Un secondo aspetto di ambiguità. La soluzione è sciolta dalla teiera che è incontestabilmente reale. Presenti quindi realtà e illusione. I due oggetti, martello e teiera, creano una continuità congruente, sono reali, si possono toccare e volendo anche impugnare. Allo stesso tempo una continuità incongruente, un conflitto. Il martello è duro, di ferro, è offerto al visitatore per essere impugnato; la teiera è fragile nel materiale e nella sua posizione così precaria. Una relazione tra opposti. Come diceva Hitchcock, se nell’inquadratura cinematografica è presente una pistola, prima o poi spara. Se c’è un martello prima o poi colpisce. Difficile trattenersi. Vedere non è solo vedere, è anche agire. Quando vediamo una bottiglia, per esempio, non attiviamo solo le aree della corteccia visiva, ma anche aree della corteccia motoria responsabili dell’azione da compiere se voglio raggiungere la bottiglia per bere. Il martello, allo stesso modo, attiverà aree della corteccia diverse in funzione di quello che ho in mente di fare. Probabilmente chi lo osserva come oggetto “ready made” attiverà aree della corteccia del circuito percettivo della gratificazione estetica, chi lo immagina come oggetto funzionale da brandire attiverà anche aree della corteccia motoria. Un processo analogo può accadere quando osserviamo un cavallo che compie un movimento sghembo come quello rappresentato nel dipinto. Il cavallo non si muove realmente perché è fermo sulla tela. Ma noi cogliamo un movimento implicito causato dalla rottura di simmetria della figura, dalla zampa sollevata e dalla torsione del collo. Se noi vediamo un cavallo reale che si muove, la percezione del movimento è dovuta all’attivazione dei neuroni dell’area V5 della corteccia visiva. Cosa interessante è che questi neuroni dell’area V5 si attivano anche quando siamo in presenza di un movimento implicito: il cavallo è statico, ma percettivamente vediamo il dinamismo. Quindi, di nuovo, vedere non è solo vedere, ma rendere disponibili le informazioni in arrivo per tutta una seria di azioni che lo spettatore ipotizza o programma. Come dicevano i Gestaltisti, gli oggetti vivono in un campo e in questo campo di forze, raggruppate nella sala della galleria dove è esposta l’installazione di Virgilio Rospigliosi, sono presenti oggetti diversi con funzioni molto distanti. Ma il fatto che il campo li racchiuda, crea una inevitabile connessione tra gli oggetti, anche se molto disparati tra di loro in termini formali e di contenuto. Il martello nella sua vita ordinaria è usato per battere, colpire, schiacciare. In questo contesto ha una funzione amplificata. Diceva lo storico dell’arte Erwin Panofsky che dove finisce la funzione pratica dell’oggetto inizia quella estetica. Abbiamo dunque due scelte di fronte al martello: o lo percepiamo esteticamente (oltre la funzione pratica) o lo percepiamo in maniera funzionale, per l’uso che ne possiamo fare. Ma in una galleria gli oggetti si ammirano, non si toccano e tantomeno si usano. E qui inizia quel processo che da mentale può diventare comportamentale. Nel momento in cui io mi trovo davanti ad un oggetto da usare per colpire, passo da un processo cognitivo a un’azione comportamentale. Dove rivolgo l’azione aggressiva, violenta? Verso il cavallo inerme e disabile? Si tratta solo di un quadro, in realtà. Non è un cavallo, è solo la rappresentazione di un cavallo. Ma la rappresentazione di un cavallo, secondo i codici percettivi che guidano la nostra conoscenza, ci rimanda direttamente e senza mediazioni all’animale. Certo non protesterà, non scapperà, non urlerà. Il gesto dello spettatore potrebbe però arrivare a provocare la distruzione dell’opera. E chi ha il coraggio di compiere questa azione? La teiera è un oggetto commerciale, di poco valore, una volta rotta si può ricomprare. La sua posizione in alto a destra è già instabile, ci vuole poco per farla cadere. La caduta produrrà un rumore fragoroso mentre la si osserva frantumarsi. Questo suono ci rimanda alla sua distruzione, è un feed-back sonoro che può essere liberatorio. Quante volte avremmo voluto rompere piatti e bicchieri. Qui lo possiamo fare, ci è consentito, anzi siamo sollecitati a farlo. E possiamo farlo anche in maniera distratta tirando il filo di cotone che unisce il collo del cavallo alla teiera. E il martello continua a stare sul piedistallo. Rivolgere la nostra azione distruttrice al quadro è più complicato. Prendersela con il dipinto di un cavallo, realizzato con notevole qualità artistica, non è semplice. Il cavallo presenta anche una deformità ed è malfermo sulle zampe. Basta poco per farlo crollare. Ma l’installazione dell’artista e l’invito alla performance prevede questo. Mettere in collegamento, attraverso l’azione, tutti e tre gli elementi presenti. Il martello potrà essere impugnato o brandito. C’è l’autorizzazione dell’artista. È lui che invita a farlo. Ma è il pubblico responsabile dell’azione aggressiva. Rabbia e aggressività sono presenti in ognuno di noi. Si deve solo trovare il modo di farla emergere. E qui ci sono le condizioni per farlo. Più facile rompere una teiera, ma un’opera d’arte! L’artista ha impiegato tempo e perizia e, malgrado venga esplicitamente chiesto, ci sarà qualcuno disposto ad accettare la sua provocazione? Un singolo spettatore non avrebbe coraggio di farlo, forse. Ma il pubblico è un gruppo composto da individui che possono rinforzare le qualità positive e negative nell’agire comune. Insieme si trova la forza o, se si vuole, il coraggio. In questo caso non si è solo spettatori ma anche artisti, protagonisti di questa performance. Il pennello è sostituito da un martello. Burri non lo sostituiva con la fiamma ossidrica quando bruciava le plastiche o i legni? E non era quella un’azione distruttrice della materia? Anche il quadro di Rospigliosi è materia. In quanto investiti di questo compito da parte dell’artista, si partecipa all’operazione collettiva distruttiva. Un conflitto morale iniziale tra ciò che è etico è ciò che non lo è. Superato dal fatto che si è in qualche modo deresponsabilizzati perché invitati a farlo e perché si tratta di un’azione collettiva. Come le teiere, i quadri si possono riprodurre e questo può servire per sentire meno il senso di colpa per aver offeso l’arte.
Pittura Morta (Tentazione - Azione - Senso di colpa) Installazione performativa comportamentale 2005-2025©. Acrilico su legno, martello, porcellana, filo di cotone, cm 135x90 - 90x25
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