OSSERVATORIO TEORETICO

 

Aporie - Contraddizioni apparenti (1987)

Note metodologiche sul capovolgimento della percezione

Quando ci troviamo davanti a un’opera che rappresenta oggetti identificabili - stoffe, volumi geometrici, superfici metalliche - il nostro cervello attiva automaticamente un processo di riconoscimento. "Conosco questa forma", pensiamo. "So cos'è questo". Eppure, qualcosa non torna. La certezza iniziale vacilla, e ci troviamo in uno stato di sospensione cognitiva: vediamo chiaramente ciò che è rappresentato, ma non riusciamo a comprenderne il senso complessivo. Questo fenomeno, che potremmo definire "cortocircuito percettivo”, nasce da una contraddizione fondamentale: l’opera ci mostra elementi del mondo reale, ma li dispone secondo logiche che contraddicono la nostra esperienza quotidiana. Il risultato non è informale, dove rinunciamo completamente alla rappresentazione riconoscibile, né il realismo tradizionale, dove il mondo viene riprodotto secondo le sue leggi fisiche. È qualcosa di diverso. 

La ricerca sul capovolgimento della realtà inizia nella seconda metà degli anni Ottanta con una serie di dipinti, oggetti tridimensionali e fotografie. Insieme agli “archetipi psichici visivi” e alle “defunzionalizzazioni”, nascono in seguito a un avvicinamento alle neuroscienze e in particolare agli studi di John C. Lilly sulla coscienza e la percezione. Gli esperimenti condotti in vasca di deprivazione sensoriale, un ambiente che isola completamente il soggetto da stimoli esterni, hanno permesso di osservare direttamente i meccanismi con cui il cervello costruisce la realtà in assenza di input sensoriali abituali. Queste esperienze hanno rivelato come la percezione non sia un processo passivo di registrazione del mondo esterno, ma un'attività costruttiva della mente che organizza gli stimoli secondo schemi appresi. Da questa comprensione neuroscientifica emerge la possibilità di un lavoro artistico che intervenga proprio su questi meccanismi di costruzione percettiva. A differenza delle defunzionalizzazioni, che tolgono la funzione agli oggetti, qui la funzione viene capovolta, contraddetta, ribaltata. Si lavora sul piano ontologico: che cos'è veramente un oggetto quando lo liberiamo da ciò che "deve" essere? Quando guardiamo un oggetto, il nostro cervello confronta ciò che vede con le immagini in memoria e ci restituisce un nome. Questo processo sembra naturale, ma è un meccanismo culturale appreso. Il lavoro interviene qui: prende elementi comuni, materiali industriali, oggetti, tessuti, legni, porcellane, li frammenta e li ricompone seguendo regole che contraddicono le nostre aspettative. Identificare i materiali originari è irrilevante: ciò che conta è lo stato di sospensione percettiva che si genera quando non riusciamo a nominare ciò che vediamo. Non si spostano oggetti finiti, come nelle decontestualizzazioni. Si assemblano componenti secondo una logica coerente ma contraria alle convenzioni d'uso. Ogni opera è un sistema chiuso, un oggetto nuovo. Non è un ready‑made: è un progetto costruttivo che genera forme visive dotate di forte autonomia estetica. Forzando i materiali fuori dal loro ruolo funzionale, emergono configurazioni che non appartengono né al design né alla scultura tradizionale, ma a un territorio ibrido dove il valore formale coincide con l'esperimento percettivo. Il risultato? Riconosciamo forse i singoli pezzi, ma non riusciamo a dare un nome all'insieme. Quando un cilindro di metallo è ricomposto seguendo una logica che nega la sua funzione prevista, si produce un'aporia: un punto morto del pensiero che costringe a fermarsi nell'incertezza invece di chiudere con una definizione rassicurante. Per esempio: un pezzo di stoffa usato come base per una lastra di ferro pesante. O vetro trasparente posto per nascondere qualcosa. Il tessuto normalmente copre, non sostiene. Il vetro fa vedere attraverso, non nasconde. Ogni materiale conserva le sue proprietà fisiche ma perde il ruolo sociale assegnato. Gli oggetti continuano a esistere fisicamente, ma il cervello non riesce a classificarli. L'opera appare contemporaneamente finita e instabile, funzionale e inutile, familiare e aliena. Queste coppie opposte coesistono, generando una tensione irrisolvibile. Ed è questo il punto: la tensione va attraversata come esperienza. Accettando la contraddizione, osserviamo che le categorie per organizzare l'esperienza sono costruzioni sociali arbitrarie, non leggi naturali. Perché un tessuto deve rivestire e non costruire? Perché il metallo deve sostenere e non decorare? Di fronte a opere di questo tipo, la mente cerca risposte che vengono continuamente contraddette. Questo fallimento produce un effetto preciso: l'oggetto cessa di essere trasparente alla coscienza. Nella vita quotidiana gli oggetti che utilizziamo sono trasparenti, una sedia è solo "dove ci sediamo”, la materialità scompare dietro la funzione. Qui invece la funzione scompare e resta solo la materialità riorganizzata. L'oggetto recupera la sua presenza concreta: forma, peso, colore, superficie. Torna a essere "cosa" prima di essere "strumento". L'inutilità è strategica. Un oggetto utile definisce il nostro campo d'azione, ci condiziona. Un oggetto inutile ci lascia liberi, ma è una libertà scomoda che richiede che siamo noi a decidere cosa significa. L'inutilità sospende la destinazione sociale dell'oggetto, permettendoci di osservarlo come pura organizzazione di materia nello spazio. La nostra esperienza quotidiana degli oggetti è completamente mediata dall'uso. Un martello è "ciò con cui batto i chiodi", una tazza è "ciò in cui bevo il caffè". L'identità coincide con la funzione. Ma sul piano ontologico questa coincidenza è un'illusione culturale. L'oggetto esiste indipendentemente dalla funzione: ha massa, spazio, temperatura, composizione, proprietà fisiche che esistono a prescindere dall'uso umano. Le opere lavorano sulla frattura tra essere e funzione. Gli oggetti vengono forzati a rivelare la loro dimensione ontologica pura: continuano a essere presenti anche quando non servono più a nulla. Proprio perdendo la funzione sociale, diventano più visibili come entità materiali autonome. Ogni opera è un esperimento percettivo. I risultati vanno osservati come dati, ed emergono quando si smonta e rimonta la realtà materiale seguendo regole diverse da quelle condivise socialmente.

In conclusione, le configurazioni apparentemente assurde dimostrano che la realtà quotidiana è solo una delle infinite organizzazioni possibili della materia. Quella che chiamiamo "normalità" è la versione che la nostra cultura ha selezionato. Gli assemblaggi non creano mondi immaginari: rivelano che il mondo in cui viviamo è una scelta arbitraria, storica, modificabile. La forza di questo approccio sta nell'anticipazione: mentre oggi parliamo di realtà multiple, aumentate, post‑verità, simulazioni, questo lavoro mostrava già negli anni Ottanta, con oggetti fisici, che la percezione del reale non è mai neutra ma sempre costruita.

V R

 

Contraddizione apparente 2f. 1987©. Cm 40x30, tempera su legno.

 

Contraddizione apparente 4L. 1987©. Cm 40x30, tempera su legno.

 


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